Ha la voce serenissima George Biagi, anche se deve richiamarmi dopo qualche minuto perché uno dei suoi tre figli si sveglia nel momento in cui iniziamo a parlare. “È che ogni tanto fanno più tardi e ci vuole un po’ di più per farli addormentare” mi dice nel secondo tentativo di un’intervista che vorrei fosse istituzionale, ma che non può esserlo, perché George è un amico prima di tutto.
“Mi raccomando eh, non diventarmi come Maldini!” gli dico per prenderlo in giro, commentando le vicissitudini di un Milan troppo distante dai fasti di un tempo. Di lì in poi cerchiamo di trovare un filo logico e un ordine nel flusso di pensieri, sensazioni, idee e suggestioni che quel messaggio arrivatomi ieri mattina con scritto “volevo dirti che in giornata annuncio il mio ritiro” aveva generato in me, quel senso di ineluttabilità che porta con sé ricordi e speranze, sogni e paure, gratitudine e ironia.
Come sta oggi, George Biagi? “Sto bene, anzi benissimo! La scelta di smettere è stata una scelta secondo me necessaria, pianificata assieme alla mia compagna e arrivata nel momento più giusto. Certo, questo è lo sport più bello del mondo e inconsciamente vorrei giocare fino a 120 anni, ma c’è un tempo in cui si deve dire basta. Io sono soddisfatto, mi ritengo molto fortunato, perché mi sono tolto la più grande soddisfazione di tutte: vestire d’azzurro.”
Ora farà il dirigente, George. Sarà in giacca e cravatta con il club che lo ha consacrato, quello che ha guidato per più volte di tutti, le Zebre: “Ho sempre voluto fare il dirigente, penso sia la mia strada – mi racconta con grande pacatezza e precisione, come fosse un maestro zen che modella il suo karesansui – assieme alla Federazione cercherò di occuparmi sia di sport che di amministrazione. Sarà una bella sfida, sono entusiasta!”
A quel punto gli chiedo una cosa che è stata con me per almeno cinque anni: “George, secondo me potresti essere un grande allenatore… Sicuro sicuro di non optare per quella carriera?”
“Mah, guarda: quando ti rendi conto che la tua carriera sta per finire pensi che l’allenatore possa essere la continuazione naturale, perché hai la possibilità di vedere i ragazzi in campo e di continuare a vivere il rugby in modo diretto. Però ecco, vuoi mettere con lo stare con i piedi sotto la scrivania, senza prendere la pioggia, la neve, la grandine, con nessun conetto e nessun pallone da raccogliere? Meglio, no?”
Effettivamente il ragionamento ha un senso, ma ci sono questioni di campo di cui voglio parlare. Scelgo per lui tre delle migliori partite della sua carriera: la vittoria a Edimburgo con la Scozia nel 2015, quella a Firenze con il Sudafrica nel 2016 e quella con i Barbarians nel tour del 2019. Gliele sottopongo, in una sorta di domanda-non domanda come a dire “beh, che ne pensi?”
“Mah, queste sono partite speciali della mia vita, ma ce ne sono altre che sono parte di me: la vittoria a Connacht o quella a Parigi di quest’ultima stagione per esempio. In queste occasioni vedi davvero quanto vale un gruppo e di cosa è capace. Per quanto riguarda i Baabas, è stato tutto assurdo: all’inizio pensavo a uno scherzo perché avevo amici a cui i compagni avevano fatto recapitare una finta lettera di convocazione da parte dei Barbarians, poi alla fine tutto è stato confermato: fortunatamente non ho compagni così stronzi. Ero davvero incredulo, ma è stato bellissimo.”
È difficile guardarsi indietro, George, ma se lo facessi, cosa cambieresti: “Eh, bella domanda… (“forse sto imparando a fare domande decenti” gli rispondo nel mentre, ndr.) forse non cambierei nulla, perché mi è andata molto bene. Mi dicono che se avessi fatto qualcosa in più in palestra… è che invecchiando ti dedichi ad altre cose che quando sei più giovane trascuri. Solo per farti capire: negli ultimi anni ho curato moltissimo le preparazioni di inizio anno e tutto questo lavoro, una cosa che ho sempre fatto con serietà anche prima eh, solo che ho capito cosa potevo migliorare. Poi vabbè, man mano hanno iniziato ad arrivare sempre più giovani in squadra: gli stranieri mi chiamavano “Godfather” (il padrino, ndr.) perchè ero il più vecchio! Sotto certi aspetti però è bello vedere tanti ragazzi con questo entusiasmo e tutta quella forza, il futuro è il loro. Allo stesso tempo qui siamo riusciti a creare una bella famiglia ed è molto particolare quello che si prova in spogliatoio o nei momenti insieme.”
Come l’hanno presa i compagni questa notizia? “Sono rimasti dispiaciuti. Con tanti abbiamo un rapporto quotidiano e sapevano che ci stavo pensando, però gli ho detto che sarà brutto non condividere in campo, ma che oh, diciamocelo: alla fine tocca a tutti!”
Decisamente George, mi sembra una bella chiosa per questo pezzo.
Di Alessandro Ferri